Quando il governo italiano ha emanato, nel marzo 2025, un decreto che limita fortemente il diritto alla cittadinanza per discendenza (jus sanguinis), la giustificazione ufficiale sembrava tecnica: contenere "l'eccesso di richieste". Ma questa spiegazione è superficiale. Il provvedimento non riguarda l'efficienza. Riguarda l'ideologia. Riguarda l'identità. E, soprattutto, riguarda l'esclusione.
Ciò che sta accadendo nell'Italia di Antonio Tajani, Giorgia Meloni e Matteo Salvini non è solo una politica migratoria. È un progetto politico che riecheggia – nel tono, nella forma e nello spirito – il nazionalismo autoritario che ha preso piede in Europa negli anni '1930. E che, in Italia, si è guadagnato un nome: fascismo.
Questa riforma riecheggia l’antica volontà di purificare l’italianità.
Il decreto Tajani: genealogia di un'esclusione
O Decreto legge n. 36/2025, redatto dal Ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani (Forza Italia), ha limitato il riconoscimento di Cittadinanza italiana automatico per i nipoti di cittadini italiani. Dalla quarta generazione in poi, i discendenti avranno diritto solo se il genitore ha risieduto legalmente per almeno due anni in Italia prima della nascita, oltre a non avere un'altra cittadinanza al momento della nascita.

Questo cambiamento sembra ragionevole, se non si considera il contesto. Il Brasile, che ospita la più grande comunità di discendenza italiana al mondo. (più di 30 milioni di persone), è il principale interessato. Migliaia di casi in corso saranno archiviati. Le famiglie saranno divise tra cittadini e non cittadini. E tutto questo con la motivazione che "la cittadinanza deve essere un impegno concreto per l'Italia".
Ma chi decide cosa è “reale”?
L'elogio di Mussolini e il rifiuto dell'antifascismo
Nel 2019, Tajani dichiarò che Benito Mussolini "fece anche cose buone", nel tentativo di rilanciare l'immagine del dittatore come modernizzatore del Paese. La dichiarazione ricevette recensioni negative in tutta Europa e fu condannata dal Parlamento europeo. Ma Tajani non ritrattò con fermezza la sua affermazione: si limitò ad affermare di essere stato frainteso.
Il premier Giorgia Meloni, leader del Fratelli d'Italia, ha iniziato la sua carriera politica in gruppi ereditati dal Movimento Sociale Italiano, fondato da ex fascisti dopo la guerra. Nel 1996, all'età di 19 anni, affermò che "Mussolini era un buon politico". Sebbene ora neghi qualsiasi legame con il fascismo, Meloni si rifiuta ancora di dichiararsi "antifascista", un termine esplicitamente contemplato dalla Costituzione italiana.
Questo rifiuto è più che simbolico. È strutturale.
Matteo Salvini: il separatista diventato nazionalista
Il terzo pilastro della coalizione di governo è Matteo Salvini, della Lega (ex Lega Nord). Per anni, Salvini ha sostenuto il separatismo nel Nord Italia, definendo il Sud "peso morto" e invocando una "Padania libera". Ora nazionalista riconvertito, è ossessionato da confini, identità e sovranità.
Salvini è famoso per frasi come:
“Non possiamo accettare che qualcuno diventi italiano solo perché lo vuole”
Ha definito Mussolini "un leader che ha avuto il suo tempo" e ha duramente criticato l'uso del termine "fascista" come insulto. Nel 2019, il suo partito ha approvato tributi ai soldati della RSI, la Repubblica Sociale Italiana, ultimo baluardo del regime di Mussolini sotto l'occupazione nazista.
L'ombra delle leggi razziali del 1938
Forse il parallelo più scomodo è questo. Nel luglio del 1938, il regime fascista pubblicò il Manifesto della razza, che ha dato origine alla Leggi razziali italianeQueste leggi bandirono gli ebrei dalle scuole, dalle università e dalle cariche pubbliche, proibirono i matrimoni “misti” e revocarono la cittadinanza concessa ai non europei e alle minoranze.
Il principio era chiaro: proteggere la “razza italiana”.
Oggi, cosa tutela il decreto 2025? L'"italianità autentica"?
Quando ai discendenti viene chiesto di rinunciare alla propria nazionalità, di vivere per anni in Italia o di dimostrare un “legame reale” con il Paese, si dice che L’identità italiana non è un patrimonio culturale, ma un privilegio ristretto. Ciò è pericoloso e riecheggia le peggiori pagine della storia italiana.
La cittadinanza come strumento di purezza nazionale
L'Italia è, per definizione, un paese di emigranti. Tra il 1861 e il 1985, più di 26 milioni di italiani lasciarono il paese. Partirono poveri, in fuga da carestia e guerra. I loro nipoti e pronipoti, che conservarono cognomi, abitudini e legami affettivi con il loro Paese, “terra dei nonni”, non possono più essere liquidati come opportunisti.
Negare loro la cittadinanza significa negare la storia stessa dell'Italia.
Questo nuovo modello di cittadinanza crea un "italiano ideale", addomesticato, territoriale, omogeneo. Lo stesso ideale che Mussolini perseguiva quando affermava che "il sangue definisce la patria". Lo stesso ideale che perseguitava ebrei, meticci, migranti e meridionali. Lo stesso ideale che la Costituzione del 1948 cercò di seppellire.
È il momento di dire: no di nuovo
Le persone di origine italiana devono reagire. Le associazioni italo-brasiliane devono reagire. Il Parlamento europeo deve reagire. Perché questo non è un dibattito sulla burocrazia, ma sui valori democratici. L'esclusione non è un tecnicismo: è politico, simbolico e storico.
Se la cittadinanza diventa una prova di purezza, l'Italia cesserà di essere una repubblica e tornerà a essere un progetto di esclusione.
E sappiamo dove finisce. L'abbiamo già visto. Nel 1938.
