“La riduzione delle richieste può anche alleggerire i tribunali, ma il decreto toglie diritti a chi già li aveva Cittadinanza italiana riconosciuto." Lo ha dichiarato l'ex presidente del Tribunale di Venezia, Salvatore Laganà, nel corso di un'udienza tenutasi mercoledì (9), al Senato della Repubblica.
Nei giorni scorsi la Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica ha ascoltato giuristi ed esperti sul disegno di legge di conversione del Decreto-Legge n. 36/2025, che modifica le regole della cittadinanza per discendenza, la iure sanguinis.
Responsabile di uno dei tribunali più oberati d'azione in Italia, con oltre 36 casi dal 2024, il 98% dei quali provenienti da cittadini brasiliani, Laganà ha affermato che il nuovo testo crea incertezza giuridica e danneggia coloro che hanno un legittimo diritto alla cittadinanza.
“La riduzione del numero di potenziali richiedenti la cittadinanza italiana non può che essere valutata positivamente da chi ha avuto la responsabilità di dirigere un tribunale.”
«L’articolo 3-bis […] incide pesantemente sui requisiti precedentemente previsti per il riconoscimento della cittadinanza e finisce per costituire una vera e propria revoca», ha affermato.
Il giudice ha ricordato che la giurisprudenza italiana, comprese le recenti decisioni della Corte di Cassazione, riconosce che la cittadinanza iure sanguinis è un diritto originario. Secondo lui, queste decisioni hanno natura meramente dichiarativa, vale a dire che lo Stato si limita a riconoscere qualcosa che esiste fin dalla nascita.
“Le decisioni giudiziali in materia di cittadinanza italiana hanno, secondo la consolidata giurisprudenza e dottrina, natura dichiarativa e non costitutiva. Esse riconoscono pertanto l'esistenza di uno status già acquisito dal richiedente.”
"Affermando che una persona nata all'estero non ha mai acquisito la cittadinanza, si perde uno status che aveva fino alle 23:59 (ora di Roma) del 27 marzo 2025."
Laganà ha criticato anche il nuovo criterio richiesto dal decreto: il “collegamento effettivo” con l’Italia. La regola favorisce coloro che hanno un antenato nato nel paese, anche se non ci hanno mai vissuto, ed esclude coloro che vivono, lavorano e parlano la lingua.
“Il principio di effettività […] non è trattato come il risultato della prova di fatti oggettivi, quali la conoscenza della lingua, della cultura o della residenza, bensì come presunzioni assolute, non soggette a contestazione, che spesso non riguardano il ricorrente.”
“È paradossale che la condizione di chi vive e lavora in Italia, conosce la lingua e partecipa alla vita del Paese, ma che, non avendo un antenato nato in Italia, non può essere riconosciuto come cittadino, non sia considerata rilevante.”
Il giudice ha inoltre evidenziato come grave l'inversione dell'onere della prova promossa dal decreto, che trasferisce al cittadino l'obbligo di dimostrare di non aver perso il diritto.
“La nuova norma inverte l’onere della prova: spetta al cittadino dimostrare di non aver perso la cittadinanza, in contrasto con i principi procedurali, secondo i quali chi accusa deve provare ciò che afferma.”
Laganà ha sostenuto che la via amministrativa dovrebbe essere obbligatoria prima di intraprendere un'azione legale.
“Sarebbe opportuno prevedere espressamente l’obbligatorietà del procedimento amministrativo preventivo prima di quello giudiziale, come condizione per l’azione, riservando il procedimento giudiziale al solo caso di diniego.”
Giovedì prossimo (11) la Commissione Affari Costituzionali continua ad ascoltare gli ospiti sul decreto. Tra i nomi anche quello del sindaco della Val di Zoldo, Camillo De Pellegrin, noto per le sue dichiarazioni contrarie al riconoscimento della cittadinanza ai discendenti all'estero.
La fase di presentazione degli emendamenti al testo si conclude il 16 aprile.
Il video completo dell'udienza di mercoledì (9) può essere visto qui: Senado.it
Trascrizione integrale, in portoghese, del discorso dell'ex presidente del Tribunale di Venezia *
Considerando, in primo luogo, che la riduzione del numero dei potenziali candidati per Cittadinanza italiana non può non incontrare il favore di quanti hanno avuto la responsabilità di dirigere un tribunale il cui carico di lavoro è stato, come già detto, pesantemente condizionato dall'eccessivo numero di cause — ivi compresa una vera e propria sostituzione di attività amministrativa — e considerato inoltre che la cittadinanza non va confusa con la condizione degli italiani non appartenenti alla Repubblica, di cui all'art. 51, comma 2, della Costituzione, quanto alla missione, agli uffici pubblici, alle funzioni elettive, con l'esigenza di evitare che l'equo riconoscimento dei discendenti degli immigrati che hanno mantenuto la tradizione italiana, o di coloro che sono rimasti residenti in territori un tempo italiani, prevalga sulla condizione, che è altra cosa, dei cittadini appartenenti alla Repubblica.
Vorrei tuttavia evidenziare alcuni degli aspetti più rilevanti del decreto-legge, in particolare l'articolo 3-bis inserito nella legge 5 febbraio 1992, numero 91, nella parte in cui ritiene di non aver mai acquisito la Cittadinanza italiana chi è nato all'estero, anche prima della data di entrata in vigore dell'articolo e possiede altra cittadinanza, salvo le eccezioni previste dalla norma stessa, il che incide fortemente sui previgenti requisiti per il riconoscimento della cittadinanza e finisce per determinare una revoca retroattiva di quella cittadinanza che, come ricordato nella citata sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, si acquista a titolo originario iure sanguinis, mentre lo status di cittadino, una volta acquisito, ha natura permanente ed imprescrittibile e può essere riconosciuto in qualsiasi momento sulla base della semplice prova dell'acquisizione dello status accertato con la nascita del cittadino italiano.
Occorre infatti ricordare che le decisioni giudiziarie in materia di riconoscimento di Cittadinanza italiana, secondo la consolidata posizione della giurisprudenza e della dottrina, hanno natura di riconoscimento e non la natura costitutivo, riconoscendo pertanto l'esistenza di uno status già acquisito dal ricorrente.
Nel momento in cui, come scritto nella legge, si ritiene che il richiedente nato all'estero non abbia mai acquisito la cittadinanza, ne consegue necessariamente che egli è privato di uno status che, fino alle ore 23:59 (ora della Chiesa), Roma) del 27 marzo 2025, aveva e poteva far rispettare, sia in termini amministrativi che giurisdizionali. Credo che il legislatore possa farlo, anche alla luce delle sentenze delle Sezioni Unite sopra citate e dell’articolo 51, ma è importante che tutti siano pienamente consapevoli di ciò che si sta decidendo: la privazione ex tunc di uno status giuridico che un soggetto nato all'estero poteva in precedenza rivendicare come inerente alla propria condizione di discendente di cittadino italiano.
In secondo luogo, il principio di efficacia — cioè l’acquisizione effettiva della cittadinanza, che consiste nella prova dell’esistenza di un legame con lo Stato che va oltre la semplice condivisione di un’etnia, manifestandosi in una oggettiva partecipazione ai diritti e ai doveri della Repubblica — non è trattata dal legislatore del 2025 come il risultato di una prova fondata su elementi concreti, quali la conoscenza della lingua, la condivisione della cultura, la residenza nello Stato, ecc., bensì come il risultato di una serie di presunzioni juris et de jure, che non possono essere provate in senso contrario e che, paradossalmente, non riguardano l'esito della cittadinanza del richiedente.
Tali presunzioni sono costituite, come noto, o dalla nascita in Italia di uno dei genitori del richiedente, che deve essere anch'esso cittadino italiano, oppure, in alternativa, dalla residenza in Italia per almeno due anni del genitore cittadino prima della nascita del figlio e, in secondo luogo, dalla nascita in Italia di uno degli ascendenti di primo grado, cioè di un nonno o di una nonna. Ne consegue che il fatto che il richiedente, ad esempio, risieda effettivamente in Italia, vi lavori, conosca la lingua, ecc., non è rilevante.
Non è riuscito ad ottenere, ad esempio, il Cittadinanza italiana iure sanguinis, se sei figlio o nipote di cittadini italiani non nati in Italia. Allo stesso modo, non potresti ottenerlo se sei figlio di un cittadino italiano che non è nato in Italia, ma ha risieduto nel Paese per più di due anni, se tale residenza è avvenuta dopo la tua nascita.
Ora, se è vero che la presunzione corrisponde ad una valutazione basata su quanto normalmente avviene, devo umilmente osservare che mi sembrerebbe più vicino a questa presunzione il caso di chi vive e lavora in Italia ed è figlio di un cittadino italiano che non era né nato né residente in Italia prima della sua nascita, così come di chi è nato da un cittadino italiano che ha vissuto in Italia, magari a lungo, magari in modo stabile, ma solo dopo la sua nascita.
In terzo luogo, la scelta contenuta nel secondo comma inserito nell'articolo 19 del decreto legislativo numero 150 del 2011, relativo alle controversie relative al riconoscimento della cittadinanza, secondo cui chiunque chieda il riconoscimento della cittadinanza deve addurre e provare l'assenza di cause di ineleggibilità o di perdita della cittadinanza, implica certamente un'inversione dell'onere della prova. Ciò contraddice i principi generali in materia di onere della prova, secondo i quali spetta all'attore provare in giudizio i fatti che costituiscono la sua pretesa, mentre l'onere della prova dei fatti che estinguono, modificano o impediscono la pretesa ricade sul convenuto. Lo hanno ribadito di recente le Sezioni Unite della Cassazione, con la già citata sentenza del 22.
Ed è curioso che non solo si verifichi questa inversione dell'onere della prova, ma che la prova stessa non possa essere fornita nemmeno dalla testimonianza - che, pur essendo un tipo di prova raramente utilizzato oggi nei tribunali, è pur sempre uno strumento -, limitando in un modo non facilmente comprensibile i mezzi di difesa a disposizione dell'attore.
L’ultima osservazione: anche con questa significativa limitazione, il numero di persone potenzialmente interessate ad acquisire la cittadinanza iure sanguinis continuerà ad essere ampio - anche se certamente più limitato di prima - e sarebbe stato opportuno, a mio avviso, per evitare il ripetersi della sostituzione dell'attività amministrativa da parte dell'autorità giudiziaria, prevedere espressamente l'obbligo del previo tentativo del procedimento amministrativo dinanzi a quello giurisdizionale, facendo di ciò una vera e propria condizione per la proposizione del ricorso, inteso questo esclusivamente come ricorso avverso il diniego di riconoscimento della cittadinanza da parte dell'autorità amministrativa.
*Trascritto e tradotto con l'intelligenza artificiale.